Archivio | COOPERAZIONE: troppo giovani per abbattersi RSS feed for this section

Tornare

3 Set

Tornare in El Salvador, dopo un mese e mezzo trascorso in Italia, con la consapevolezza di essere ormai ufficialmente parte dello staff fino alla fine del progetto mi ha provocato un turbinio di emozioni contrastanti.

Da un lato c’è l’innegabile gioia di aver ottenuto il tanto agognato contratto, e la soddisfazione per avercela fatta… almeno per il momento: la folle caccia alle vacancy è rimandata al 2015.

Dall’altro lato c’è il lavoro arretrato di due mesi da recuperare; nuove dinamiche da conoscere, capire e approfondire; significativi cambiamenti al testo del progetto da mettere in atto.

Devo riabituarmi ai ritmi locali, ai lunghissimi tempi morti, alle dilazioni e ai rimandi infiniti, agli “ahorita” (termine traducibile nel meno poetico “aspetta e spera”) continui. Ma soprattutto devo abituarmi all’idea di non essere più una stagista! Per cui tutte le incombenze a me attribuite sono ora una mia esclusiva responsabilità. Questo non significa che sia cambiato qualcosa a livello di organizzazione interna (cosa che, effettivamente non è accaduta), quanto piuttosto qualcosa a livello di presa di coscienza personale. Ottenere un contratto non rappresenta il fine ultimo, quanto piuttosto l’inizio di un percorso personale e professionale che, ovviamente non si conclude al termine del medesimo.  

Ora sento molto di più il peso delle mie responsabilità e, di conseguenza, ho molta più paura di sbagliare e di deludere le persone che hanno deciso di credere in me, i colleghi di lavoro, i beneficiari e, ovviamente me stessa. Insomma non mancano i momenti di frustrazione, ma, per fortuna, neanche quelli di soddisfazione che derivano da un’attività di successo o da un riconoscimento, anche informale, da parte degli individui che gravitano intorno a questo progetto.

Quindi eccomi qui, di nuovo davanti a questo lago, croce e delizia dei beneficiari, pronta ad affrontare l’ultimo anno e mezzo di progetto.

Simona, 32 anni, El Salvador

Una Giornata di Vacancy

6 Ago

Ore otto. Per due ore sono stato lui. Alto, magro, barba di qualche giorno. Vestivo solo camice di lino, rigorosamente colori della terra. Erano bei tempi. Lui, non ancora trentenne si era ritrovato, un po’ per caso un po’ per necessità, dall’altra parte del mondo, in quella che chiamano Africa. Oggi è un consulente, collabora con alcune organizzazioni non governative e centri di ricerca. Fa spesa alla coop e sta cercando lavoro.

Ore dieci. Siamo di nuovo in ballo…

Spet.le società, sono un (INSERISCI COSA SEI) con formazione in (INSERISCI COSA TI HA RESO COSA SEI)…  considerando la Vostra, consapevole che, soprattutto tengo a specificare che, il mio interesse in, riconoscendo poi… spero di avere occasione di conoscerVi di persona.

Sul tavolo vestito di violetta melanzana erano posti, come in un’ellenistica natura morta, resti di cibo che si annidavano intorno al mio computer. Poi, dalla bottiglia di vetro… un uomo, un giovane. Pallido, slavato. Il viso scarno. Dalla sua postura si direbbe aver studiato e lavorato per lunghi periodi. Ci avrei scommesso: la sera a lavoro nei locali e il giorno all’università. Quale facoltà? Una delle tante.

Gentilissima…. scrivo in merito all’annuncio per cameriere da Lei pubblicato. Sono un ragazzo di 27 anni con alcune esperienze di lavoro in bar, gelaterie, ristoranti e discoteche; sono molto interessato al lavoro proposto, sperando di…… allego il mio cv.

Intanto, pochi minuti prima di mezzogiorno, le lancette dell’orologio si sfioravano ed io…. finivo di mangiare il mio yogurt preferito comprato alla coop.

Ore tre del pomeriggio. Un ragazzo appesantito da un pasto fugace entrava nel salone e, chinandosi per raccogliere il portatile, si lasciava cadere nel mai-stato-così-comodo divano.

Spett.le società, sono un neolaureato con formazione in scienze politiche, che ha maturato una approfondita conoscenza nel (VAI CON LA FANTASIA). Pur essendo consapevole che la Vostra ricerca predilige figure specializzate in (QUALSIASI COSA TRANNE LA TUA), sono fortemente motivato……

La mattina un consulente, ore pasti un cameriere, nel pomeriggio un venditore porta a porta. Di notte…

Al calar del sole si riunivano. Idee, pensieri, note… vino e desideri.

Desidero.

Si.

Desidero Io….

E’ tardi, o forse no. Non mi sono ancora lavato ma…. devo finire di appiccicare questi cazzo di punti coop.

Luca, 27 anni, Roma

Noi Veniamo dal Lago

24 Mag

Il progetto nel quale sono inserita si occupa di pescatori di un lago artificiale costruito negli anni ’70 per produrre energia elettrica.
Parlando con alcuni di loro mi sono sentita dire “io vengo dal lago”, intendendo di essere originari di una delle comunità che sono state allagate per far posto a questo grosso bacino.
Villaggi, scuole, cimiteri, antiche rovine Maya, le terre più fertili del Paese: tutto è stato inesorabile coperto dall’acqua.
La vita di questa parte di Paese è cambiata per sempre.

Il dipartimento un tempo noto per il suo clima fresco è ora  caratterizzato da temperature torride. Gli agricoltori della zona si sono dovuti trasformare in pescatori. Le famiglie sono state sfollate e trasferite in altre località che portano l’umiliante nome di “Reubicaciones 1-2 y 3”; sono passati 15  anni prima che fossero garantiti i servizi di base (acqua, luce, scuole) in queste nuove comunità.

Nei periodi di secca alcune terre, ormai di proprietà dell’impresa elettrica, emergono dal lago e attraverso una catena di affitti e subaffitti vengono concesse a caro prezzo ai pescatori per fini agricoli. Vivere della sola pesca non è più possibile: il lago è inquinato, la concorrenza è forte e proviene sia dai pescatori che dai predatori naturali, il prezzo del pesce è deciso dagli intermediari che gestiscono tutto il commercio.

Sono trascorsi meno di 40 anni dalla sua costruzione. “Alcuni di noi avevano provato a resistere, ma quando l’acqua ha cominciato a salire… siamo dovuti andare via”.

Anche questo è El Salvador: piccole storie di gente comune che vive in un paese di cui non si parla mai.

Simona, 31 anni, El  Salvador

Tre Anni

3 Mag

La durata media di un progetto di sviluppo è di tre anni. Noi siamo giá a metá strada; cominciamo a vedere i primi frutti che danno grande soddisfazione e voglia di andare avanti… ma la strada é ancora lunga ed é sempre piú evidente come tre anni non possano essere sufficienti.
Manca ancora un anno e mezzo. Tanti risultati sono stati raggiunti, tanti altri si raggiungeranno sicuramente. Alcuni invece sono stati giudicati chiaramente irrealizzabili in quanto poco realistici, rendendo necessario richiedere una variante al nostro ente finanziatore.
Poi ci sono gli obiettivi, e sono quelli che preoccupano. Da qui ad un anno e mezzo la sostenibilità non è garantita; servono più tempo e più risorse affinché tutto ciò che è stato investito fino ad ora non risulti solo uno spreco.
Capisco ora pienamente le parole del prof. quando a lezione sottolineava l’importanza di inserire i progetti in un processo di cambiamento. Il problema forse è che noi stiamo iniziando quel processo con i nostri progetti in loco. El Salvador è un paese uscito dalla guerra civile da appena 20 anni, e tutto ciò è ben riflesso nella sua società; a ciò si aggiungono i problemi “classici” di questi paesi, tra cui il machismo, l’eccessivo potere assunto da leader religiosi di alcune sette, l’analfabetismo, la violenza etc… .

Quando vivevo di soli manuali e teoria, pensavo che tre anni fossero abbastanza, forse anche troppi. Una successione di giorni, settimane e mesi in cui realizzare tantissime cose. Ora che comincio a scontrarmi con la realtà mi rendo conto dei mesi persi per star dietro alla burocrazia, della stagione delle piogge arrivata troppo presto che rischia di fermare i lavori, degli errori commessi in passato a cui ora bisogna rimediare, dei problemi quotidiani piccoli e grandi. Ma non si può andare oltre i tre anni, non con questo progetto. Non rimane allora che aspettare che esca un nuovo bando per continuare il lavoro fatto, perché pur con mille difficoltà questo progetto comincia a funzionare e parte dei beneficiari comincia a sentirlo proprio.

Simona, 31 anni, El Salvador

Il Fattore Umano in un Progetto

29 Apr

Lavorare in un progetto di sviluppo è difficile!

Il motivo può risultare semplice: differenti culture, paesi poveri, risorse scarse, modi di lavorare totalmente opposti, lingue, luoghi, cibi troppo diversi. A tutte questi fattori però, piano piano, ci si adegua; alcuni si comprendono, altri si imparano, altri ancora si accettano e basta. Dopo un po’ di tempo sai che le cose sono così, vanno in un determinato modo e non puoi far altro che conviverci, di prenderle così come sono, senza farti troppe domande.

Tutto questo è amplificato dal fatto che spesso i progetti di sviluppo sono in villaggi o piccole città, dove la comunità espatriata è ristretta, ci si conosce tutti, le sere le si passano insieme per ammazzare il tempo che altrimenti scorrerebbe troppo lentamente per i tempi occidentali.

Quello che non ti aspetti, però, è che i maggiori problemi non sono causati dall’ambientarsi ma sono causati dal fattore umano. Sono problemi che nascono dalle persone e, troppo spesso queste persone sono internazionali, quelli che comunemente sono chiamati “espatriati”; coloro ai quali è affidato il delicato compito di fare sviluppo cercando di rispettare la cultura, il modo di fare, di pensare delle persone locali. Troppo spesso questo fattore umano predomina; troppo spesso influisce sul lavoro e ne modifica i risultati, le dinamiche, i tempi e le relazioni.

In un luogo in cui non si è abituati a vivere per lungo tempo, ci si aspetta di trovare un ambiente espatriato sereno, pacifico, rilassante. Ti aspetti di veder fare cooperazione e non guerra sociale; t’immagini che i cooperanti facciano cooperazione; t’immagini che, per il lavoro che sei andato a fare, ad imparare, l’etica sia la regina delle doti umane; t’immagini che i problemi nascano da quelle che si chiamano “condizioni esterne”; t’immagini che la solidarietà, in luoghi spesso dimenticati da Dio, la faccia da padrona; t’immagini che le dinamiche sociali mirino esclusivamente a far gruppo al fine di convivere nel miglior modo possibile … a volte, però, l’immaginazione è meglio lascarla all’immaginario collettivo e che noi stagisti, cooperanti, espatriati ci limitassimo a ricordare il motivo che ci ha portato a partire!

Antonio, 28 anni, Tanzania

Dietro la Porta di un Giovane Cooperante

9 Apr

DSCF0307 (1)Il biglietto aereo ingiallisce ogni giorno di più e il ritorno è sempre più lontano… dal mio arrivo.

Rieccola. Di nuovo la sensazione di dover far qualcosa, di nuovo quello strano stato d’animo, come se il mondo smettesse di girare e fossimo noi a dover alimentare la sua spinta.

Non è così, è solo che non c’è un progetto, un lavoro  o forse un giorno sembra esserci, poi diventa incerto, improbabile, sospeso, bisogna aspettare. Bisogna essere flessibili dopotutto, ci dobbiamo saper adattare, trovare le posizioni giuste.

Una riunione, un’altra, poi penso che tutto stia per succedere. No, dobbiamo vedere come andranno certe cose:  il rientro dall’estero di qualcuno, l’uscita di un bando o l’arrivo di alcuni finanziamenti.

Si procede ancora a vista, così va avanti anche la mia vita, con le mani avanti… ad attutire il colpo. Mi devo guardare intorno, aprire altre porte, sapere che questo potrebbe non essere il mio lavoro, impegnarmi per ottenerlo ed imparare a fare altro per evitare il peggio.

Non voglio continuare a vedere la mia vita dallo spioncino.

Luca, 27 anni, Roma

La Nascita del Progetto

29 Mar

Vogliamo un progetto!

Ok…

Ma lo scrivi tu?

Si…

Ma scusa, non sei qua per fare la cena?

No veramente sono quella con cui dovete fare l’albero dei problemi se volete che da questo albero nasca qualcosa…..

E via con l’idillio dell’amore tra la stagista inesperta e il gruppo dei “beneficiari”. Essere giovani e donne complica un po’ le cose, la tua credibilità sta più in fondo del fondo del lago che ti sta di fronte, riuscire a farsi ascoltare richiede uno spiegamento di energie che non ho impiegato neanche per scalare il vulcano che ugualmente mi sta di fronte insieme al lago. Ci si incontra, mostri impegno e dedizione e, nonostante conoscano perfettamente la tua faccia, continuano a guardarsi tra loro ogni volta che riappaio come a dire: ma è una ragazza!

Capirli è impossibile, la lingua ci separa ma l’empatia ci avvicina.

Passi i giorni a pensare che cosa fargli fare, obiettivo, risultati, attività….maledetto quadro logico!

Forse c’è una possibilità di finanziamento ma dobbiamo mandare una mail….

Si presentano in 30, perché il gruppo è compatto, o tutti o nessuno, e stanno lì affacciati davanti al tuo pc a guardare questa cosa meravigliosa che è un documento word e lo devi trovare veramente interessante specie se non sai leggere, ma partecipare è tutto, la presenza fisica conta, è un modo per dire mi interesso.

Finalmente si consegna perché il tempo è scaduto, gli metti in mano la bozza alla quale loro devono apportare i commenti e le dovute revisioni, perché le cose si fanno insieme, e parte l’ennesimo discorso in una strana lingua e tu con mille pensieri al secondo: ecco anche questa volta si sono arrabbiati.

La traduzione in simultanea in realtà dice: grazie per la delicatezza avuta con noi nel curare questa relazione e averci accompagnato in questo percorso.

No no…grazie a voi!!

Maria Paola, 29 anni, Guatemala

La Sfida dello Sviluppo Sostenibile

5 Mar

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Sostenibilità. Grande parola in voga da un po’ di tempo a questa parte, praticamente essenziale nel mondo della cooperazione dove ogni azione da portare avanti deve essere capace di sapersi sostenere nel tempo ma deve soprattutto essere sostenuta da chi viene coinvolto. Fare sviluppo sostenibile non è solo priorità delle ONG impegnate nella cooperazione ma anche di altri attori del settore privato affidando alla loro responsabilità d’impresa lo sviluppo di un’area.

Arrivo nel Quichè, persa nell’altopiano guatemalteco, territorio completamente indigeno dove tra le varie etnie Maya risiede quella degli Ixil, tristemente noti nella storia per essere stati oggetto di massacri e genocidio durante gli anni ottanta mentre la guerra civile lacerava questo paese e la Guerrilla tentava di organizzare una resistenza che non compromettesse l’identità culturale e la dignità di tante comunità. Nebaj è persa nelle montagne, il bianco candido della chiesa nella piazza centrale fa brillare ancora di più il sole creando un contrasto meraviglioso tra l’azzurro del cielo e il verde dei boschi che la circondano. Qui si è festeggiato l’inizio del nuovo anno  secondo il calendario maya con le autorità indigene ancestrali riunite intorno a un fuoco in cui si sono contati i giorni e si sono fatte offerte per ogni Nahual che guiderà il futuro a venire. Le autorità tengono un discorso per l’occasione e parlano in Ixil di alcune cose piuttosto importanti nella pubblica piazza mentre risuona un nome vagamente familiare: Enel. Forse è un errore, sento male, invece no, parlano proprio della nostra multinazionale leader nel settore energetico che ha inaugurato in queste montagne la diga di Palo Viejo senza previa consulta delle autorità, accaparrandosi le loro risorse naturali senza dare nulla in cambio, ma restituendo solo divisioni sociali e beni comuni negati ai quali loro non hanno più accesso. Le autorità parlano chiaro con una lucidità e una consapevolezza estrema ricordando come da 500 anni l’invasore non ha fatto altro usare che le loro terre ignorando la loro esistenza. Sono stanchi e arrabbiati e nonostante tutto aspettano il momento per poter riavviare un dialogo a loro promesso e non ancora arrivato, lo aspettano perché è cosi che agiscono, le azioni legali sono troppo pesanti e se si riesce a parlarne è meglio. La forza della parola è tutto, per esigere un diritto, per denunciare una violazione, per risolvere un conflitto, per tramandare una cultura, per invocare la madre terra affinché la nuova era produca un cambio positivo per tutti gli esseri che la abitano.

Nell’attesa del dialogo per stabilire come poter essere risarciti dai danni subiti senza poter neanche usufruire dell’energia elettrica che passa sopra le loro teste tramite i cavi ad alto voltaggio, suona la campanella della scuola e i bambini escono correndo felici. Hanno tutti addosso lo stesso zainetto, nero e verde con una scritta bianca: Enel Green Power. Tutto questo fino a quando potrà ancora essere considerato sostenibile?

Maria Paola, 29 anni, Guatemala

Uomo Bianco, che sorpresa!

25 Feb

Mustafà, 4/6 anni sorriso carino un po’ spaventato. Ha una mamma bellissima ed una etnia antica. Due sorelle che lo accompagnano in una delle numerosissime passeggiate della sua vita, tra i baobab. Si avvicina ed urla disperato Mustafà, il motivo sembra apparentemente una incognita. Eppure gli occhi grandi, scurissimi, nascosti dietro quei colori cosi lucenti che solo gli abiti africani possono vantare, sembrano inorriditi. Eh si che piangere in Africa è abbastanza comune, ma farlo in quel modo proprio no. Sembra una gran brutta cosa. La curiosità c’è, anche tanta, ma è tale la paura da spazzarla via. Improvvisamente si alza per allungare la mano. Gli spazi sono talmente grandi che è impossibile nascondersi. Tutti ridono, tranne lui, lui urla. E allora via. Si allontana Mustafà, corre, scappa da quella strana cosa che è simile a lui quanto diversa. La mamma mi chiede di perdonarlo è il suo primo incontro con l’uomo bianco. Mh, la diversità, una gran bella sorpresa.

Giuseppe 27 anni, Senegal

Hombres de Maiz

11 Feb

mais

Alla fine diventerai una donna di mais! Cosi una mia collega mi ha preannunciato mentre facevamo colazione con uova, fagioli e l’alimento nobile nella dieta di qualsiasi centroamericano: tortillas di mais.

Fare le tortillas è una vera e propria arte, sembra facile prendere quella pallina di pasta di mais, iniziare a schiaffeggiarla tra le mani per poi metterla a cuocere sul “comal”, il piano di cottura riscaldato dalla legna, in realtà non lo è affatto. Cimentarsi in questa impresa può costarti grandi risate da parte di chi pensa che coloro che vengono dall’altro lato del mondo non possono essere in grado di fare certi lavori manuali.

La vita dei Maya ancora ruota intorno a questo alimento, la mattina presto le donne passano per strada con i loro recipienti pieni di mais macinato nel mulino comune per poi riportarlo nelle loro case con l’obiettivo di iniziare a preparare tortillas che accompagneranno tutti i pasti della giornata. Cammini e passando vicino alle loro case puoi sentire il rumore di queste mani che con tre o quattro colpi appiattiscono in un dischetto il mais macinato e capisci che i tuoi nuovi compaesani stanno per fare colazione.

Il mais è il re della “milpa”, campo che viene coltivato insieme ai fagioli, la cui canna, una volta finita la raccolta, viene piegata a metà per permettere all’amico legume di arrampicarsi e poter crescere dando i suoi frutti. Il mais è colorato, è allegro, è giallo, bianco, ma anche rosso, nero, blu, viola colori che noi non abbiamo mai pensato potesse avere questo alimento che viene coltivato in grandissimi campi e che da un po’ di tempo a questa parte viene associato al Cash-crop.

Per i Maya il mais non è solo coltura, ma soprattutto un modo di vivere, è identità, è appartenenza, è la storia della loro vita che si ripropone ogni volta che si coltiva, si raccoglie e poi si mangia. Loro ci insegnano che in principio si creò l’uomo di fango, ma con la pioggia si sciolse, poi si provò con il legno, poté camminare ma non aveva una coscienza, alla fine si provò con il mais e l’uomo si rivelò una creatura duratura e sensibile. Mangiare mais è una costante rinascita specialmente da 500 anni a questa parte….

Maria Paola, 29 anni, Guatemala

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